Nel primo post abbiamo visto come Joseph Smith fosse spesso in compagnia dei money diggers e che ne guidava le infruttuose ricerche con le sue pietre divinatorie. Nel 1827 queste vicende gli causarono dei problemi con gli ex compagni di scavo, quando dirà di aver trovato delle tavole d’oro in quella che conosciamo oggi come collina di Cumora.
Facciamo un po’ di ordine con gli eventi: Joseph Smith racconta nel Times and Seasons del 15 aprile 1842 che un angelo apparve nella sua stanza la notte del 21 settembre 1823 e che “quando lo guardai per la prima volta, ne fui spaventato; ma tosto il timore mi lasciò. Mi chiamò per nome, e mi disse che era un messaggero mandatomi dalla presenza di Dio, e che il suo nome era Nefi; che Iddio aveva un’opera da farmi compiere […] Disse che esisteva un libro nascosto, scritto su tavole d’oro, che dava un racconto degli antichi abitanti di questo continente e della loro origine. Disse pure che vi era contenuta la pienezza del Vangelo eterno, come era stato consegnato dal Salvatore a quegli abitanti.”
Questo brano è ripreso tale e quale nella biografia che Lucy Mack Smith fa del figlio nel 1845 e nella prima edizione di Perla di Gran Prezzo (1851), mentre oggi leggendo la testimonianza di Joseph Smith all’inizio del Libro di Mormon la citazione è stata modificata per dire Moroni al posto di Nefi.
Anche John C. Whitmer, figlio di Jacob Whitmer degli Otto Testimoni, disse: “Ho sentito mia nonna (Mary M. Whitmer) dire in diverse occasioni che le tavole del Libro di Mormon le erano state mostrate da un santo angelo, che chiamava sempre fratello Nefi” (The Historical Record, Volume 7, p. 621). Durante la vita di Joseph Smith succedeva spesso che ci fosse confusione su certi soggetti, per esempio non era chiaro se Kolob fosse una stella o un pianeta oppure se Geova fosse il nome del Padre o del Figlio, quindi questo può essere uno di quei casi prima che si scegliesse una versione ufficiale.
Nelle prime storie il messaggero ha un aspetto insolito: Joseph e Hiel Lewis, due cugini di Emma, dicono che Joseph Smith raccontò loro che dopo aver trovato le tavole d’oro a Cumora “vide un uomo in piedi sopra il punto, che aveva secondo lui l’aspetto di uno spagnolo, con una lunga barba che gli scendeva sul petto fin pressappoco qui (Smith mette la sua mano sulla bocca dello stomaco) con la sua gola (quella del fantasma) tagliata da un orecchio all’altro e il sangue che colava giù, che gli disse che non avrebbe potuto recuperarle da solo; che un’altra persona che avrebbe riconosciuto a prima vista sarebbe dovuta andare con lui e allora le avrebbe ottenute”. (The Amboy Journal, 30 aprile 1879)
Joseph Smith padre conferma il sangue in un’intervista rilasciata nel 1830 a Fayette Lapham in cui dice che il figlio “fece un sogno molto singolare, ma non raccontò a suo padre del suo sogno fino a circa un anno dopo. Disse quindi a suo padre che, nel suo sogno, gli apparve un uomo molto grande e alto abbigliato con vesti antiche e i vestiti erano insanguinati. E l’uomo gli disse che c’era un tesoro inestimabile, sepolto molti anni addietro, non molto lontano da quel posto; e che ora era il momento di portarlo alla luce per il beneficio di tutto il mondo; e che, se avesse seguito fedelmente le sue istruzioni, lo avrebbe guidato al luogo in cui era deposto in un modo in cui lo avrebbe potuto ottenere.” Dopo essersi recato sulla collina e aver provato a recuperare le tavole “sentì qualcosa colpirlo sul petto, che si ripeté tre volte sempre con forza crescente, l’ultima delle quali così tanto da stenderlo sulla schiena. Mentre giaceva lì, guardò in su e vide lo stesso grande uomo che era apparso nel suo sogno rivestito degli stessi abiti. Gli disse che, quando il tesoro era stato deposto lì, gli venne fatto giurare di prendersene carico e di proteggere quel bene finché sarebbe arrivato il momento di esibirlo al mondo umano; per impedirgli di divulgarlo illecitamente, venne assassinato o ucciso sul posto e il tesoro fu sotto la sua responsabilità da quel momento. Gli disse che non aveva seguito le sue istruzioni e, in conseguenza all’aver posato l’oggetto prima di averlo messo nel panno, non avrebbe potuto avere l’oggetto ora ma, se fosse ritornato a un anno da quel giorno, avrebbe potuto averlo.” (The Historical Magazine, vol. 7, maggio 1870)
Martin Harris dice nella sua intervista a Joel Tiffany del 1859 che “in quel vicinato c’era una compagnia che scavava per trovare denaro che era stato nascosto presumibilmente dagli antichi. In questa compagnia c’erano l’anziano signor Stowel -credo che il suo nome fosse Josiah- e anche l’anziano signor Beman, poi Samuel Lawrence, George Proper, Joseph Smith figlio, suo padre e suo fratello Hiram. Scavavano alla ricerca di denaro a Palmyra, Manchester e anche in Pennsylvania e altri luoghi.” A sua volta Henry Harris dice che “Joseph Smith figlio, Martin Harris e altri erano soliti incontrarsi in privato un po’ prima che le tavole d’oro fossero trovate ed erano familiarmente noti col nome di Gold Bible Company.” Samuel T. Lawrence è lo stesso nominato negli altri affidavit di Hurlbut: Joseph Capron lo menziona alla difesa dei money diggers dagli attacchi degli spiriti con una spada e Willard Chase ricorda che Joseph Smith portò Lawrence in cima a Cumora nel 1825, pensando che fosse la persona che Moroni gli aveva detto di portare, e “gli mostrò dove fosse il tesoro. Lawrence gli chiese se avesse trovato qualcosa assieme alle tavole d’oro; gli disse di no; gli chiese quindi di guardare nella sua pietra per vedere se non ci fosse nulla con esse. Guardò e disse che non c’era nulla; gli disse di guardare di nuovo e di controllare se non ci fosse un grande paio di occhiali assieme alle tavole; guardò e vide un paio di occhiali, gli stessi con i quali Joseph disse di aver tradotto il Libro di Mormon.”
Abbiamo già visto come gli stessi Chase fossero associati agli Smith: Willard aveva scavato in cerca di tesori con Alvin Smith e sosteneva che la pietra divinatoria marrone, trovata scavando un pozzo nella loro proprietà, gli appartenesse in quanto la aveva estratta lui stesso; la pietra bianca era stata invece trovata da Joseph Smith dopo aver consultato la pietra divinatoria verde di Sally Chase, altra veggente e sorella di Willard. Abbiamo quindi ritrovato vecchie conoscenze come Josiah Stowell, i Chase e Samuel T. Lawrence, fatto la conoscenza di Alva Beaman (scritto anche Beman) e fra poco aggiungeremo all’elenco altri due money diggers: Joseph Knight (che aveva conosciuto gli Smith tramite l’amico Josiah Stowell mentre scavavano dalle sue parti nel 1825) e Luman Walters.
George Edward Anderson, Cumora nel 1907 |
La collina di Cumora, dove Joseph dirà che giacevano le tavole, non era passata inosservata ai cacciatori di tesori di Palmyra e Manchester. Orsamus Turner, uno storico locale, racconta che “Leggende di tesori nascosti avevano da lungo tempo designato Mormon Hill [Cumora] come un deposito. Il vecchio Joseph aveva scavato lì e il giovane Joseph non aveva solo sentito suo padre e sua madre raccontare le meravigliose storie di ricchezze sepolte, ma aveva accompagnato suo padre negli scavi a mezzanotte e negli incanti per gli spiriti che le custodivano.” (History of the Pioneer Settlement of Phelps and Gorham’s Purchase and Morris’ Reserve, p. 214) Elizabeth Kane, moglie di Thomas L. Kane (un non mormone famoso per aver sostenuto i mormoni nella migrazione a ovest, nella creazione del battaglione mormone e poi nella guerra dello Utah), scrive che durante una visita nello Utah nel 1873 aveva parlato con Porter Rockwell. Rockwell era un amico di infanzia di Joseph Smith e ricorda che da giovane a Palmyra “non c’era solo eccitazione religiosa, ma i fantomatici tesori del capitano Kidd erano ricercati in lungo e in largo e i cercatori d’oro ricercavano tesori, senza nemmeno essere guidati da alcuna diceria tradizionale, anche in luoghi come Cumora dove la foresta primigenia cresceva ancora indisturbata.” (A Gentile Account of Life in Utah’s Dixie, p. 74) Anche Artemisia Beaman, moglie dell’apostolo Erastus Snow e figlia di Alva Beaman, dice che un certo Luman Walters “fu incaricato tre volte di andare alla collina di Cumora per scavare alla ricerca di tesori. Le persone sapevano che c’era un tesoro lì. Beman era uno di quelli che lo aveva chiamato. Venne: ogni volta diceva che vi era un tesoro ma che non era lui che poteva recuperarlo, però c’era una persona che poteva. L’ultima volta che venne indicò Joseph Smith, che era seduto silenziosamente fra un gruppo di uomini nella taverna, e disse che il giovane uomo che poteva trovarlo era lì, e sacramentò e imprecò su di lui in modo scientifico: orribile!” (p. 72) Walters era stato influente nella carriera del giovane Joseph e Abner Cole, che pubblicava il Reflector di Palmyra, scrive in un articolo del 28 febbraio 1831 che “era il compagno costante e amico del cuore di questi impostori di money diggers. C’è ben poco dubbio nelle menti di coloro che conoscono un minimo questi eventi che Walters, chiamato a volte il mago, e che era pagato 3 dollari al giorno dai money diggers per i suoi servizi in questa zona, aveva suggerito per primo a Smith l’idea di trovare un libro.”
La scoperta delle tavole d’oro solleva un vespaio nelle compagnie di money diggers di Joseph Smith: Martin Harris racconta a Tiffany che “queste tavole vennero trovate nel punto settentrionale di una collina due miglia a nord del villaggio di Manchester. Joseph aveva una pietra che era stata estratta dal pozzo di Mason Chase a 24 piedi sotto la superficie. In questa pietra poteva vedere molte cose, è mia conoscenza certa. Fu attraverso questa pietra che scoprì per la prima volta quelle tavole.”
Lucy Mack Smith dice nella biografia del figlio che “il signor Knight e il suo amico Stoal erano venuti a vedere come gestivamo la situazione con Stodard e compagnia e rimasero con noi fino al 22” (p. 105) Harris specifica a Tiffany che “il signor Stowel era in quel momento dal vecchio signor Smith per scavar soldi. Quei cacciatori di tesori dicevano che avevano trovato dei cofani, ma che prima di potersene impadronire questi sprofondavano nel terreno.” Durante il secondo processo di Smith a Colesville (giugno 1830), Stowell testimonierà però che quando Joseph portò l’involucro con la “Bibbia d’oro” a casa, lui “aveva visto un angolo di essa; somigliava a una pietra di aspetto verdastro e giudicava che misurasse un piede per lato e spessa sei pollici”. Stowell non sarà l’unica persona a dire che l’oggetto che Joseph teneva nascosto alla vista non erano tavole metalliche, come vedremo più avanti.
L’area di Manchester, a sud di Palmyra |
Quel fatidico 22 settembre 1827, poco dopo la mezzanotte, Joseph si reca a Cumora con Emma sul carro di Joseph Knight, recupera le tavole dalla collina e le nasconde temporaneamente in un tronco morto. Harris continua il racconto così: “Quando Joseph ottenne le tavole, comunicò il fatto al padre e alla madre. Le tavole restarono nascoste nella cima dell’albero finché ebbe la scatola pronta. Andò poi a recuperarle e le portò a casa. Mentre tornava a casa con le tavole incontrò quello che sembrava un uomo e che richiese le tavole colpendolo con una mazza sul fianco, che era tutto nero e blu. Joseph stese l’uomo e corse a casa: era parecchio trafelato. Arrivato a casa, porse le tavole dalla finestra e la madre le recuperò da lui. Vennero quindi nascoste sotto il focolare della casa di suo padre. Ma dato che il muro era parzialmente abbattuto si temette che certi uomini che cercavano di impossessarsi delle tavole sarebbero andati sotto la casa per estrarle. Allora Joseph le portò fuori e le nascose sotto il vecchio laboratorio da bottaio sollevando un’asse e scavando nel suolo per seppellirle. Quando vennero portate via da lì, furono messe in una vecchia scatola di vetri dell’Ontario. Il vecchio signor Beman aveva segato via le estremità portando la scatola alla lunghezza giusta per mettercele dentro e disse che quando vennero messe dentro le udì sferragliare ma non gli fu permesso di vederle. Me lo ha detto lui.
I money-diggers sostenevano di aver diritto alle tavole tanto quanto lo aveva Joseph, visto che erano insieme nella compagnia. Sostenevano che Joseph li aveva traditi e che si era appropriato per sé stesso ciò che apparteneva a loro. Per questo motivo Joseph li temeva e continuava a nascondere le tavole. Dopo averle nascoste sotto il pavimento del laboratorio da bottaio per un breve periodo, Joseph venne avvertito di rimuoverle. Disse che era stato avvertito da un angelo. Le tirò fuori e le nascose nella stanza del laboratorio da bottaio fra del lino. Quella notte venne qualcuno, sollevò il pavimento e scavò nel terreno, e avrebbe trovato le tavole se non fossero state rimosse.”
David Whitmer, che era a Palmira nel 1828 e aveva sentito storie sulle tavole d’oro, dice in un’intervista del 1881 che “ho avuto conversazioni con diversi giovani uomini che dicevano che Joseph Smith aveva di sicuro delle tavole d’oro e che prima di recuperarle aveva promesso di condividerle con loro, ma non lo aveva fatto ed erano davvero molto infuriati con lui.”
In chiesa avevo sempre sentito che i cospiratori erano solo dei ladri che volevano impadronirsi delle preziose tavole d’oro: non avevo idea che avessero legami così stretti con gli Smith, come non avevo mai trovato in un manuale o in un discorso menzioni su cosa fossero i cercatori di tesori e che gli Smith ne facessero attivamente parte. Come raccontava Pomeroy Tucker, un altro editore di Palmyra e conoscente degli Smith, in un articolo: “Già nel 1820 Joe Smith, all’età di circa 19 anni, iniziò ad assumere il dono di poteri sovrannaturali e divenne il capo di un piccolo gruppo di uomini e ragazzi come lui impiegati in operazioni notturne di caccia ai tesori […] indotti dalla loro confidenza e cupidigia a contribuire privatamente ai costi di mandare avanti l’impostura, con la promessa della spartizione del guadagno previsto”. (Wayne Democratic Press, 26 maggio 1858) Capisco l’imbarazzo della Chiesa nell’ammettere queste relazioni, ma insabbiare eventi importanti e far passare gli ex colleghi degli Smith per dei volgari ladri solo perché si sentivano giustamente defraudati da uno di loro è una calunnia bella e buona, specialmente se quello che dice Willard Chase su Joseph Smith che gli aveva rubato la pietra marrone è vero.
Lucy Smith ricorda che “il mattino successivo trovammo il pavimento del laboratorio da bottaio strappato via e la scatola che era stata depositata sotto di esso fatta a pezzi. Pochi giorni dopo venimmo a conoscenza del motivo di quest’ultima mossa -perché la loro curiosità li aveva portati in direzione del laboratorio da bottaio. Una giovane donna di nome Chase, sorella di Willard Chase, aveva trovato un vetro verde attraverso il quale poteva vedere molte cose davvero meravigliose e, fra le sue grandi scoperte, disse che aveva visto il luogo preciso dove ‘Joe Smith teneva nascosta la sua Bibbia d’oro’ e, obbedienti alle sue indicazioni, la folla unì le proprie forze e mise sotto assedio il laboratorio da bottaio. Nonostante la loro delusione nel non trovare le tavole nel laboratorio, la loro fiducia nella signorina Chase non venne minimamente scossa, poiché continuarono ad andare di luogo in luogo sotto le sue indicazioni determinati a impadronirsi, se possibile, del tanto agognato oggetto della loro ricerca.” (p.116) Lucy Smith aveva già indicato Willard Chase come capo della banda aggiungendo che avevano chiamato un uomo che abitava a una sessantina di miglia da Palmyra per aiutarli a localizzare magicamente le tavole (p. 108) e Joseph Knight nella sua autobiografia sostiene che si riunissero proprio a casa di Samuel T. Lawrence (p. 5). Brigham Young menziona un paio di volte il chiromante che per trovare le tavole “si era fatto oltre sessanta miglia per tre volte nello stesso periodo in cui furono recuperate da Joseph Smith” per arrivare a Palmyra, che “imprecava scientificamente” e che “quando Joseph recuperò il tesoro i sacerdoti, i diaconi e i religiosi di ogni livello andarono mano nella mano con il chiromante e con ogni individuo malvagio per togliergliele dalle mani” (Journal of Discourses vol. 2, pp. 180-181). Specifica in un altro discorso che “Non ho mai sentito cadere dalle labbra di nessun uomo sacramenti come quelli che ho sentito dire da un uomo che era definito chiromante e che sapeva dove fossero nascoste quelle tavole. Un’estate andò per tre volte a recuperarle -la stessa estate in cui Joseph le recuperò.” (JoD vol. 5, p. 55) La descrizione di Brigham Young e Lucy Smith corrisponde perfettamente a quella fatta da Artemisia Beaman quando parlava di Luman Walters.
Mary A. Noble, altra figlia di Alva Beaman, dice nella sua autobiografia che “non appena si sparse in giro la voce che era stata trovata una Bibbia d’oro, poiché così era chiamata all’epoca, le menti delle persone si agitarono e si arrivò a tal punto che una folla si radunò per perquisire la casa di Joseph Smith padre per trovare gli annali. Mio padre era lì in quel momento e aiutò a nascondere le tavole in una scatola in un luogo nascosto dove nessuno potesse trovarle, anche se non le vide.” Sua sorella Artemisia spiega a Elizabeth Kane che in seguito “era sotto il camino alla fattoria dei Beman che le ‘tavole’ del Libro di Mormon erano nascoste”, nella cittadina di Livonia. I continui spostamenti delle tavole si fanno ormai fastidiosi per gli Smith e la sua Compagnia della Bibbia d’oro (che sembrerebbe composta dallo stesso Beaman, dagli Smith, Martin Harris, Josiah Stowell e Joseph Knight), quindi Joseph decide di allontanarsi e tornare a Harmony dai suoceri con la moglie incinta; il facoltoso fattore Martin Harris dà 50 dollari alla coppia per il viaggio e per ripagare i debiti, mentre le tavole vengono nascoste sul carro in una botte piena di fagioli. Qui abbiamo Isaac Hale, il padre di Emma, che racconta in uno degli affidavit di Hurlbut del 1834 che “fui informato che avevano portato con sé un meraviglioso libro su tavole. Mi venne mostrata una scatola nella quale dicevano che erano contenute, che aveva l’aspetto di una scatola di vetri per finestre. Mi fu permesso di sentire il peso della scatola e mi dissero che vi erano dentro le tavole, ma che non mi era permesso guardarci dentro. Chiesi a Joseph Smith chi sarebbe stata la prima persona che avrebbe potuto vedere le tavole e disse che sarebbe stato un bambino piccolo. Dopo questo fui insoddisfatto e lo informai che se vi fosse stata una qualsiasi cosa corrispondente a ciò in casa mia che non avevo il diritto di vedere, doveva portarla via; se non lo avesse fatto, sarei stato deciso a vederlo. Dopodiché dissero che le tavole erano nascoste nei boschi.” Un giorno, vedendo il genero che dettava il Libro di Mormon, dice che “il modo in cui diceva di leggere e interpretare era lo stesso di quando scrutava per i cercatori di tesori, con la pietra nel cappello e la faccia nel cappello, mentre le tavole erano allo stesso tempo nel bosco!”
Copia di John Whitmer dei caratteri sulle tavole d’oro, fotografata da Jacob H. Hicks nel 1886 |
I primi scribi per Joseph sono la moglie e il cognato Ruben, mentre all’inizio del 1828 Martin Harris verrà da Palmyra e farà lui stesso da scrivano per il resto del Libro di Lehi. Harris andrà a New York con una copia di alcuni caratteri che Joseph Smith diceva provenire dalle tavole d’oro per avere un parere professionale al riguardo ed avere la certezza che fosse tutto vero. Alla Columbia University Samuel L. Mitchill lo indirizzerà a Charles Anthon, uno dei più importanti classicisti dell’epoca. Anthon scrive in una lettera del 17 febbraio 1834 i dettagli dell’incontro: Harris gli dice che Joseph Smith voleva usare i suoi soldi per pubblicare il contenuto delle tavole d’oro e Anthon racconta che “dopo aver sentito questa strana storia cambiai opinione riguardo al foglio e, invece di vederlo come uno scherzo rivolto ai dotti, cominciai a considerarlo parte di una trama per rubare al fattore il suo denaro e gli comunicai i miei sospetti, avvertendolo di fare attenzione alle canaglie.” Il testo in egiziano riformato non lo aveva impressionato e lo descrive in questi termini: “Quel foglio era infatti uno scarabocchio singolare. Consisteva di ogni tipo di lettere contorte disposte in colonne ed era stato evidentemente preparato da qualcuno che aveva al momento sotto agli occhi un libro con vari alfabeti. Lettere greche ed ebraiche, croci e disegnini, lettere romane invertite o girate di lato […] il foglio conteneva tutto fuorché geroglifici egiziani.”
Ben presto anche la moglie di Harris, Lucy, che inizialmente era stata convinta dalla storia delle tavole, comincia ad avere il sospetto che in realtà sia uno stratagemma per sottrar loro un bel po’ di soldi (in effetti Martin metterà un’ipoteca sulla fattoria al fine di ottenere i 3.000 dollari per la stampa del Libro di Mormon e dovrà vendere 61 dei suoi 130 ettari di terra per estinguerla) e insiste invano per vedere le tavole. La pressione è tale che Martin Harris chiederà a Joseph per tre volte di poterle portare almeno le 116 pagine trascritte fino ad allora, in modo da convincerla della bontà dell’opera; Joseph consulta la sua pietra divinatoria marrone ma solo la terza volta riceve una risposta positiva e a giugno gli permette di portare il manoscritto a Palmyra a condizione che solo la moglie, la cognata, il fratello e i genitori di Harris lo vedessero. Nel frattempo Emma perderà il bambino e lei stessa rischierà di non sopravvivere al parto. Violando il patto solenne, Martin Harris mostra il manoscritto a tutti gli amici che lo chiedevano e presto le 116 pagine scompaiono, piombando Martin e gli Smith in un misto fra disperazione e disfatta. Joseph riceve dalla pietra divinatoria marrone quella che oggi è la sezione 3 di Dottrina e Alleanze, la sua prima rivelazione scritta, in cui Dio fa una lavata di capo a lui e a Harris per lo smarrimento delle pagine. Il giornalista Frederick G. Mather racconta che era stata Lucy Harris a nascondere il manoscritto e che aveva sfidato Joseph a ritrovarlo usando la pietra divinatoria, ma questi non ci riuscì e Lucy infine lo bruciò. Joseph verrà privato per un certo tempo delle tavole e il lavoro si interromperà.
Se Joseph Smith fosse riuscito a ridettare tale e quale il testo del Libro di Lehi la veridicità della sua storia sarebbe stata confermata, ma invece ricevette convenientemente la rivelazione di lasciar perdere il Libro di Lehi: la stessa porzione sarebbe stata ripetuta, ma stavolta in un riassunto dal punto di vista di Nefi, figlio di Lehi. A quanto pare i congiurati pensavano contortamente che “se Dio gli darà di nuovo il potere, ossia se tradurrà di nuovo, o in altri termini, se egli produrrà le stesse parole, ecco, noi le abbiamo in nostro possesso e le abbiamo alterate; esse dunque non concorderanno e noi diremo che ha mentito nelle sue parole, e che non ha alcun dono, e non ha alcun potere” (DeA 10:17-18). Mi chiedo come avrebbero potuto riscrivere paginate intere copiando la grafia di Martin Harris per cercare di sbugiardare Joseph Smith, ma l’occasione non si presentò perché del Libro di Lehi non si sentirà mai più parlare. Sarà dopo quasi un anno, il 7 aprile del 1829, che il lavoro di trascrizione riprenderà a pieno ritmo: a Palmyra il nuovo maestro di scuola, Oliver Cowdery, aveva preso alloggio dagli Smith e insisteva per incontrare Joseph Smith ad Harmony per saperne di più su quell’intrigante storia delle tavole d’oro.
I trasferimenti delle tavole d’oro |
Joseph e Oliver riprenderanno dalle pagine che Emma Smith e Martin Harris avevano vergato dopo la perdita del primo manoscritto, ma la trascrizione avanza a fatica per l’ostilità degli abitanti e degli Hale che insistono che la faccenda sia una truffa ed è per questo che nessuno può vedere le tavole. Oltre a questo i giovani Smith hanno difficoltà economiche perché il lavoro nei campi va anche peggio (fortunatamente il buon Joseph Knight aveva fornito diverse volte soldi, viveri, vestiti e carta) e opteranno per un ulteriore trasloco a giugno: stavolta andranno a Fayette, dove viveva Peter Whitmer con la sua famiglia, il cui figlio David era un amico di Oliver Cowdery. David Whitmer verrà a prenderli col suo carro ma, durante il ritorno, le tavole non sono sul veicolo.
Lucy Smith spiega che “Quando Joseph cominciò a fare i preparativi per il viaggio, chiese al Signore per sapere in che modo dovesse portare le tavole; la sua risposta fu che doveva affidarle alle mani di un angelo per la loro sicurezza; e quando sarebbe arrivato dal signor Whitmer, l’angelo lo avrebbe incontrato nel giardino e gliele avrebbe riconsegnate nelle sue mani.” (pp. 151-152) David Whitmer raccontò a Joseph F. Smith e Orson Pratt il 7 settembre 1878 che, mentre erano nelle praterie fra Harmony e Fayette, sbucò dal nulla un uomo con un pesante fagotto sulla schiena che diede loro il buongiorno alzando il cappello e asciugandosi il sudore dalla fronte. Quando gli proposero un passaggio, il viaggiatore rispose: “No, sto solo andando giù a Cumora.” Mentre il gruppo cercava di capire dove potesse essere quel luogo mai sentito, persero di vista l’uomo e David Whitmer chiese cosa volesse dire quella curiosa apparizione, “Joseph lo informò che quell’uomo era Moroni e che il fagotto sulla sua schiena conteneva le tavole che Joseph gli aveva consegnato prima che partissero da Harmony, contea di Susquehanna, e che le aveva prese per sicurezza e che le avrebbe riconsegnate quando lui (Joseph) avrebbe raggiunto la casa di padre Whitmer.” (Diario di Joseph F. Smith, 25 aprile 1918) L’episodio è curioso perché Cumora non era ancora un nome conosciuto all’epoca, ma è chiaro che il viaggiatore avesse nominato una località che non era stata sentita bene dai passeggeri e che poi per continuità retroattiva Whitmer abbia detto che il nome pronunciato era proprio Cumora. In più se fosse stato davvero Moroni, sarebbe andato a portare le tavole a Fayette, non a Cumora.
Questa seconda sparizione mi fa sorgere un dubbio: se davvero le tavole non sono sul carro, allora queste non hanno mai lasciato Harmony. Abbiamo visto come Alva Beaman abbia detto a Harris che l’oggetto che aveva messo in una scatola nuova dopo la distruzione di quella vecchia da parte dei money diggers aveva fatto un rumore metallico, ma nel 1884 anche William Smith dice che quando erano a Palmyra “le manipolammo e potevamo dire che cosa fossero. Non erano grandi quanto questa Bibbia. Potevo dire se fossero tonde o squadrate. Potevo sollevare le pagine in questo modo (alzando alcune pagine della Bibbia davanti a lui). Si poteva dire facilmente che non erano una pietra scolpita per ingannare, e nemmeno un blocco di legno.” Emma rilascia nel 1879 l’ultima intervista al figlio e presidente della Chiesa Riorganizzata, che va così: “Domanda. Sei sicura che avesse le tavole all’epoca in cui scrivevi per lui? Risposta. Le tavole giacevano spesso sul tavolo senza alcun tentativo di nasconderle, impacchettate in una piccola tovaglia di lino che gli avevo dato per avvolgerle dentro. Una volta ho sentito le tavole mentre giacevano così sul tavolo, tracciando i loro contorni e la forma. Sembravano flessibili come carta spessa e frusciavano con un suono metallico quando i bordi erano mossi col pollice, come quando a volte si scorrono col pollice i bordi di un libro.” Se queste testimonianze sono credibili (e tengo a ricordare che in quell’intervista Emma nega che il marito fosse poligamo, cosa che invece sapeva bene, e che William Smith era sempre stato considerato abbastanza erratico, quindi i due testimoni non sono dei più affidabili), sospetto che Joseph Smith abbia creato delle tavole metalliche ma che queste non esistessero ancora quando aveva nascosto la scatola vuota nel laboratorio da bottaio di suo padre: Pomeroy Tucker racconta che all’epoca William T. Hussey, un amico di Joseph Smith a Palmyra, dopo aver insistito invano per
vedere le tavole d’oro strappò via il telo che le copriva e vide solo una
grossa tegola (Origin, Rise and Progress of Mormonism, pp. 31-32). Approfondirò la questione alla fine ma, dopo averle assemblate verosimilmente con fogli di latta a Palmyra e averle trasportate a Harmony, qui infine le distrugge o le nasconde per sempre visto che nessuno dei Whitmer a Fayette dice che l’oggetto in casa loro facesse suoni metallici e avrebbe perciò potuto essere un qualsiasi oggetto pesante.
La collaborazione fra Oliver e Joseph si era rivelata vincente e nel giro di tre mesi avevano portato a termine la trascrizione del Libro di Mormon, anche con il contributo di Emma e i fratelli Christian e John Whitmer. David Whitmer, in un’intervista al Kansas City Journal del 5 giugno 1881, conferma quello che diceva Isaac Hale sul ruolo superfluo delle tavole nel processo: “Io, così come tutta la famiglia di mio padre, la moglie di Smith, Oliver Cowdery e Martin Harris eravamo presenti durante la traduzione […] Non usava le tavole nella traduzione”. Queste erano sempre avvolte in un velo e non erano consultate anzi, a volte non erano neanche nella stanza.
I Tre Testimoni. The Contributor, ottobre 1883 |
Ora che il grosso del lavoro è fatto, Joseph Smith rivela che tre persone avranno il privilegio di vedere finalmente le tavole d’oro: i fedeli collaboratori Martin Harris, Oliver Cowdery e David Whitmer, che tanto avevano sperato e insistito con Joseph. Il 28 giugno li porta in un bosco e tutti si inginocchiano in preghiera per ricevere una visione delle tavole. La dichiarazione che firmeranno proclama in modo altisonante: “Sia reso noto a tutte le nazioni, tribù, lingue e popoli ai quali giungerà quest’opera: che noi, per grazia di Dio Padre e di nostro Signore Gesù Cristo, abbiamo veduto le tavole che contengono questi annali, che sono la storia del popolo di Nefi ed anche dei Lamaniti, loro fratelli, ed anche del popolo di Giared, che venne dalla torre di cui si è parlato. E sappiamo pure che esse sono state tradotte per dono e potere di Dio, poiché la Sua voce ce lo ha dichiarato; pertanto sappiamo con certezza che quest’opera è vera. Noi attestiamo pure che abbiamo veduto le incisioni che sono sulle tavole; ed esse ci sono state mostrate per potere di Dio e non dell’uomo. E dichiariamo con parole sobrie che un angelo di Dio scese dal cielo e portò e posò le tavole dinanzi ai nostri occhi, perché potessimo guardarle e vederle con le loro incisioni; sappiamo che è per grazia di Dio Padre e di nostro Signore Gesù Cristo che noi vedemmo e rendiamo testimonianza che queste cose sono vere. E ciò è prodigioso ai nostri occhi. Nondimeno la voce del Signore ci comandò di darne testimonianza; pertanto, onde essere obbedienti ai comandamenti di Dio, rendiamo testimonianza di queste cose. E sappiamo che se saremo fedeli a Cristo, purificheremo le nostre vesti dal sangue di tutti gli uomini e saremo trovati senza macchia dinanzi al seggio del giudizio di Cristo, e dimoreremo eternamente con Lui nei cieli. E sia reso onore al Padre, e al Figlio e allo Spirito Santo, che sono un solo Dio. Amen.”
Un paio di giorni dopo altri otto individui, tutti appartenenti alle famiglie Smith e Whitmer, condivideranno la medesima esperienza: Joseph Smith padre e i figli Hyrum e Samuel, quattro fratelli di David Whitmer, ossia Christian, Jacob, John e Peter figlio e infine Hiram Page, marito di una loro sorella, Catherine Whitmer. La loro dichiarazione è ancora più diretta: “Sia reso noto a tutte le nazioni, tribù, lingue e popoli ai quali giungerà quest’opera: che Joseph Smith jr, traduttore di quest’opera, ci ha mostrato le tavole di cui si è parlato, che hanno l’aspetto dell’oro; e abbiamo toccato con le nostre mani tutti i fogli che il detto Smith ha tradotto; e abbiamo veduto su di esse le incisioni, e tutto questo ha l’aspetto di un’opera antica, di singolare fattura. E rendiamo testimonianza con parole sobrie che il detto Smith ce le ha mostrate, poiché le abbiamo vedute e soppesate, e sappiamo con sicurezza che il detto Smith ha ricevuto le tavole di cui abbiamo parlato. E diamo i nostri nomi al mondo, per testimoniare al mondo ciò che abbiamo veduto. E non mentiamo, Dio ce ne sia testimone.”
Leggendo questi proclami si ha distintamente l’impressione che i testimoni abbiano visto coi loro occhi e toccato con le loro mani le tavole, ma la dichiarazione era stata preparata da Joseph Smith e loro si erano limitati a firmarla, come Dio aveva comandato loro in DeA 17.
Il missionario Stephen Burnett spiegherà in una lettera del 15 aprile 1838 all’ex apostolo Lyman Johnson perché aveva lasciato la Chiesa: “Ho riflettuto a lungo e meditato sulla storia di questa chiesa e soppesato le prove pro e contro di lei; sono restio a rinunciarvi, ma quando ho sentito Martin Harris dichiarare in pubblico che non aveva mai visto le tavole coi suoi occhi naturali ma solo in una visione o nell’immaginazione, né Oliver o David, e anche che gli otto testimoni non le avevano mai viste e che per quel motivo avevano esitato a firmare il documento, ma che erano stati convinti a farlo, l’ultimo sostegno venne meno: a mio avviso le nostre fondamenta erano minate, e l’intera struttura cadde in un mucchio di rovine […] Fui seguito da W. Parish, Luke Johnson e John Boynton e tutti loro furono d’accordo con me. Quando finimmo di parlare M. Harris si alzò e disse che gli dispiaceva per ogni uomo che rigettava il Libro di Mormon, poiché sapeva che era vero; disse che aveva soppesato diverse volte le tavole in una scatola con solo una tovaglia o un fazzoletto sopra di esse, ma che non le aveva mai viste se non come vedendo una città attraverso una montagna. E spiegò che non avrebbe mai dovuto dire che la testimonianza degli otto era falsa se non fosse stato interpellato, ma avrebbe dovuto lasciarla correre così com’era.” Boynton e Luke Johnson (fratello di Lyman) erano stati apostoli, mentre Parrish era uno scrivano di Joseph Smith.
Martin Harris e David Whitmer vennero intervistati diverse volte durante le loro vite (morirono rispettivamente nel 1875 e nel 1888, mentre Cowdery morì appena quarantatreenne nel 1850) e confermarono sempre che non avevano visto materialmente le tavole ma che era solo una visione. Harris ripete la versione ad Anthony Metcalf, dicendogli: “Non ho mai visto le tavole d’oro, solo in uno stato visionario o di trance. Ho scritto una bella fetta di Libro di Mormon io stesso, così come Joseph Smith traduceva o scandiva le parole in inglese. A volte le tavole erano su un tavolo nella stanza nella quale Smith faceva la traduzione, coperte con un panno. Smith mi aveva detto che Dio lo avrebbe ucciso sul colpo se avesse tentato di guardarle, e ci credetti.” (Ten Years Before the Mast, pp. 70-71) L’apostolo dell’allora Chiesa Riorganizzata Zenas H. Gurley nel 1885 chiede a Whitmer: “Sai se le tavole viste con l’angelo (sul tavolo) erano vero metallo? Le hai toccate?” e la risposta è “Non abbiamo toccato né soppesato le tavole.” Poi Gurley vuole sapere se “Il tavolo era legno nel senso della lettera o il tutto era una visione come succede spesso nei sogni e così via?” e Whitmer spiega che “Nella visione il tavolo mostrava l’aspetto di legno nel senso della lettera, nella gloria di Dio.”
Alla fine dei conti, l’oggetto avvolto nel velo mi sembra più un bluff che una qualche prova: non ha molto senso che le tavole fossero spesso in bella mostra ma che le persone potessero vederle, toccarle e sollevarle solo se coperte. Se fossero esistite davvero o se fossero state un oggetto che somigliava davvero a tavole auree piene di iscrizioni, Joseph Smith avrebbe avuto abbastanza sicurezza per mostrare l’oggetto ai Tre e agli Otto Testimoni semplicemente alzando il velo mentre erano su un tavolo; il fatto che abbia detto loro di immaginarsele in una visione mi fa dubitare della loro esistenza. Per non parlare del fatto che Moroni si sarebbe fatto peregrinazioni per anni trasportando un oggetto di decine di chili solo per non essere mai davvero usato. Se Joseph Smith poteva tradurre le tavole quando erano coperte o perfino nascoste nei boschi fuori dalla casa degli Hale, che bisogno c’era di prelevarle da Cumora? Avrebbe potuto usare lo stesso metodo per tradurle mentre queste erano al sicuro nel luogo che le aveva custodite per 1400 anni invece di affannarsi tanto per tenerle nascoste.
Inoltre le continue sparizioni sembrano piuttosto strane: lo scatola distrutta nel laboratorio da bottaio era vuota, sulla strada per Fayette non c’erano tavole e queste spariranno per sempre dopo la stampa del Libro di Mormon. Penso che la scatola nel laboratorio fosse vuota perché non aveva mai contenuto nulla e la storia dell’angelo che aveva avvertito Joseph Smith fosse solo un espediente ideato sul momento per giustificare la mancanza di qualsiasi contenuto. Nascondere le tavole nello stesso edificio dove aveva lasciato la scatola è davvero imprudente e mi sembra poco probabile che coloro che si erano dati tanta pena per sradicare il pavimento non avessero ispezionato anche il resto del laboratorio. Non è possibile dire con certezza cosa ci fosse sotto il velo, quindi le mie ipotesi sono buone come quelle di coloro che avevano toccato l’oggetto. La spiegazione più logica secondo me è quella che sostiene lo storico Dan Vogel (Joseph Smith: The Making of a Prophet, capitolo 7), cioè che le tavole fossero state fabbricate dal giovane Joseph usando delle lamine di metallo, probabilmente latta, per dare l’impressione di essere un volume come quello descritto nel folclore mormone. I fogli di latta (ferro coperto da un sottile strato di stagno) erano anche facili da procurarsi per via dell’ampio uso di cui se ne faceva, quindi con i materiali e le attrezzature del laboratorio da bottaio del padre sarebbe stato agevole produrre un oggetto credibile a patto che fosse manipolato attraverso un telo. Joseph Smith dice nella lettera a Wentworth che le dimensioni erano di 15x20x15 cm: un parallelepipedo di latta di tale misura pesa 82 libbre, circa 37 chili, ma bisogna togliere qualche chilo per tener conto dello spazio fra ogni lamina visto che qui non si parla di un unico, massiccio blocco. Martin Harris dice nell’intervista a Tiffany che secondo lui le tavole pesavano 40-50 libbre (18-23 chili), mentre Willard Chase nel suo affidavit dice che pesavano più verso le 60 libbre (circa 27 chili), così come anche William Smith (fratello di Joseph) in un libro del 1883. Se le tavole fossero state d’oro, sarebbero state ancora più pesanti.
I testimoni erano persone attivamente disposte a credere ai racconti di Joseph Smith, tanto da voler vedere le tavole ma fidandosi che non avrebbero potuto farlo semplicemente rimuovendo il velo che le copriva. Apparentemente l’oggetto avvolto era una prova sufficiente per il momento, ma darà loro la fede di vederle più avanti nella loro mente.
Le tavole spariranno dalla storia poco dopo. Brigham Young dice in un discorso del 17 giugno 1877 in cui racconta alcune storie di money diggers che “quando Joseph recuperò le tavole l’angelo
gli diede istruzione di riportarle a Cumora, cosa che fece. Oliver dice che,
quando Joseph e Oliver andarono lì, la collina si aprì ed entrarono in una
grotta nella quale c’era una stanza grande e spaziosa. Disse che all’epoca non aveva
pensato se la luce che avevano fosse quella del sole o se fosse artificiale, ma
che era luminoso proprio come di giorno. Posarono le tavole su un banco: era un
grosso tavolo che stava nella stanza. Sotto questo tavolo c’era una pila di
tavole alta fino a due piedi e nella stanza c’erano nell’insieme più tavole di
quante se ne potessero trasportare in molte carrettate; erano impilate negli
angoli e lungo i muri. La prima volta che ci andarono la spada di Labano era
appesa al muro, ma quando ci ritornarono era stata staccata e deposta sul banco
dall’altra parte delle tavole; era sguainata e su di essa erano scritte queste
parole: “Questa spada non sarà mai più rinfoderata fino a che i regni di questo
mondo non diventeranno il regno del nostro Dio e del suo Cristo.”
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