Il Libro di Abrahamo e la decifrazione dell'egiziano

Il 25 luglio 2021 è purtroppo venuto a mancare l’egittologo Robert K. Ritner, che insegnava al prestigioso Oriental Institute della University of Chicago e aveva scritto The Joseph Smith Egyptian Papyri: A Complete Edition, il volume più importante sui papiri di Joseph Smith. Il post vuole essere anche un modesto omaggio alla memoria di questo grande studioso. 

L’estate del 1835 è memorabile per gli abitanti di Kirtland: il 3 luglio l’espositore itinerante Michael Chandler sta mostrando delle mummie che potrebbero aver vissuto a suo dire ai tempi di Giacobbe, Mosè o altre figure bibliche per stuzzicare potenziali compratori (Times and Seasons, 2 maggio 1842). Questi erano inoltre fra i primissimi reperti egiziani ad arrivare negli Stati Uniti. Quando la Chiesa venne organizzata il 6 aprile 1830, fra i titoli di Joseph Smith c’erano quelli di “veggente, traduttore, profeta” (DeA 21:1), quindi Chandler è nel posto giusto per ottenere una traduzione dei papiri che accompagnavano le mummie. Joseph racconta che “c’erano quattro figure umane, assieme a due o più rotoli di papiro coperti di figure geroglifiche e immagini. Dato che al sig. Chandler era stato detto che avrei potuto tradurli, mi portò alcuni dei caratteri e gli diedi l’interpretazione” (History of the Church 2:235). Dopo aver avuto la traduzione di Smith, Chandler certifica con non poca fantasia che il profeta era in grado di “decifrare gli antichi simboli geroglifici egiziani in mio possesso”. Queste quattro mummie, due rotoli di papiro, almeno un ipocefalo e diversi frammenti papiracei vengono acquistati per l’importante somma di 2.400 dollari (circa 70.000 dollari nel 2020). Smith convince Joseph Coe e Simeon Andrews a dividere le spese in parti uguali in modo che ognuno dei tre versi 800 dollari e assicura che si sarebbero rifatti della somma con i profitti generati dalla traduzione dei papiri. In una lettera del 1° gennaio 1844 però Coe ricorda a Smith che non solo non aveva pagato tutta la sua parte e alla fine era stato Coe stesso a dover rimettere di tasca propria il resto che Smith doveva a Chandler (100 dollari più 200 di interesse), ma anche che il guadagno promesso non si era materializzato e a causa di questo si era trovato in difficoltà finanziarie. 

Nell’immagine ho incluso i papiri di Joseph Smith (JSP) sopravvissuti e quelli che è possibile ricostruire (facsimili n. 2 e 3 e Libro dei morti di Amenhotep); per ingrandire le immagini basta cliccarci sopra. La numerazione un po’ confusionaria venne introdotta da Hugh Nibley in un articolo dell’Improvement Era di febbraio 1968. Raccomando le introduzioni nei Joseph Smith Papers sui papiri, sui documenti dell’alfabeto egiziano e sui manoscritti del 1835 del Libro di Abrahamo. Fra le varie correnti del mormonismo, ad oggi solo quella brighamita (coloro che seguirono Brigham Young nell’esodo verso lo Utah) considera questo libro una scrittura canonica.

I papiri sopravvissuti e quelli ricopiati prima della loro perdita


Dopo aver iniziato a studiare i rotoli Joseph Smith scrive che “Con W. W. Phelps e Oliver Cowdery come scrivani, ho cominciato la traduzione di alcuni dei caratteri o geroglifici e, per nostra grande gioia, scoperto che uno dei rotoli conteneva gli scritti di Abrahamo, un altro gli scritti di Giuseppe d’Egitto ecc. Un resoconto più completo dei quali apparirà al momento opportuno mentre avanzo con il loro esame e spiegazione.” (History of the Church 2:236) Non solo si erano scoperti gli scritti autografi di Abramo e Giuseppe, ma Smith si mette anche a lavorare alla decifrazione dell’egiziano: “Il rimanente di questo mese sono stato costantemente impegnato nella traduzione di un alfabeto per il Libro di Abrahamo e nel preparare una grammatica della lingua egiziana così come praticata dagli antichi.” (HC 2:238) Il 1° ottobre spiega che “Questo pomeriggio ho lavorato sull’alfabeto egiziano in compagnia dei fratelli Oliver Cowdery e W. W. Phelps e, durante la ricerca, i principi dell’astronomia così com’erano compresi da padre Abrahamo e dagli antichi si sono dischiusi alla nostra comprensione, i particolari dei quali appariranno in seguito” (HC 2:286), che si trovano alle pagine 24-25 del GAEL. Quello stesso mese Warren Parrish si aggiunge a Phelps e Cowdery come scrivano per Smith; Parrish ricorda in una lettera pubblicata dal Painesville Republican del 15 febbraio 1838: “Mi sedetti di fianco a lui e scrissi la traduzione dei geroglifici egiziani così come sosteneva di riceverla per ispirazione diretta dal cielo.” Le mummie verranno identificate da Smith come un inesistente re Onitas (citato in Abrahamo 1:11), sua moglie e due figlie, una delle quali si chiamava Katumin, ed esposte dietro pagamento a chiunque volesse vederle. Il lavoro di traduzione fu sospeso alla fine del 1835 per vari impegni (il tempio di Kirtland stava per essere dedicato e poi sarebbero cominciati gli intensi corsi di ebraico con l’istruttore Joshua Seixas) per essere ripreso a Nauvoo nel 1842, dove la traduzione del Libro di Abrahamo verrà pubblicata nel Times and Seasons. Nel 1856 Emma Smith venderà mummie e papiri, il grosso dei quali col tempo finirà al Wood’s Museum di Chicago e al Met di New York; le due mummie e i papiri a Chicago finiranno distrutti nel grande incendio del 1871, mentre nel 1967 il Met consegnerà i suoi papiri a N. Eldon Tanner della Prima Presidenza dopo aver ricevuto una donazione anonima che ne copriva il valore. Non si sa dove siano le altre due mummie ed eventuali resti papiracei.

Oliver Cowdery, in merito al Libro di Giuseppe, scrive in una lettera apparsa sul Messenger and Advocate del dicembre 1835 che “Questo documento è scritto splendidamente su papiro con inchiostro o pittura nera, in piccola parte rossa, in perfetto stato di conservazione.” Aggiunge che “Il linguaggio in cui è scritto questo rotolo è davvero ampio e molti dei geroglifici straordinariamente impressionanti. Sulla superficie sono evidenti le prove che sono stati scritti da persone che avevano familiarità con la storia della creazione, la caduta dell’uomo e più o meno l’idea corretta del concetto della divinità. La rappresentazione della divinità -tre eppure uno- è disegnata curiosamente in modo da trasmettere, con semplicità ma in modo impressionante, l’idea dello scrittore di quel personaggio esaltato. Il serpente, rappresentato che cammina o formato in modo che sia in grado di camminare, in piedi di fronte o vicino a una figura femminile, è per me una delle più grandi rappresentazioni che abbia mai visto su carta o su un supporto di scrittura […] Sullo stesso rotolo c’è il pilastro di Enoch, come è menzionato da [Flavio] Giuseppe […] L’estremità interna dello stesso rotolo (il documento di Giuseppe) ha una rappresentazione del giudizio: da una parte vedete il Salvatore seduto sul suo trono, incoronato e che regge gli scettri della giustizia e del potere e davanti al quale sono anche radunate le dodici tribù di Israele, le nazioni, lingue e popoli del mondo sopra il quale Satana è rappresentato come regnante. L’arcangelo Michele, che regge la chiave del pozzo senza fondo, e allo stesso tempo il diavolo che è incatenato e rinchiuso nel pozzo senza fondo.” 

JSP IV con trinità, JSP VI e V con il serpente con le gambe e il pilastro di Enoch

Si può notare che la sua descrizione dell’inchiostro nero e rosso, della trinità, del serpente che cammina davanti a una donna e il pilastro di Enoch appaiono nelle vignette del Libro dei morti di Ta-Sherit-Min (nome reso a volte con la versione greca, Semminis). La scena con il giudizio di Gesù davanti ai popoli del mondo e Michele che incatena Satana somiglia moltissimo alla vignetta del Libro dei morti di Nefer-ir-Nebu, oppure è una vignetta scomparsa da quello di Ta-Sherit-Min che rappresenta una scena di giudizio analoga, molto comune nell’iconografia egiziana. In merito al testo in rosso, Warren Foote racconta nel suo diario che il 13 maggio 1837 Joseph Smith padre mostrò alla sua famiglia i papiri, “ce li spiegò e disse che i documenti erano gli scritti di Abramo e Giuseppe figlio di Giacobbe. Alcune delle scritte erano in nero e alcune in rosso. Disse che le scritte in rosso riguardavano il sacerdozio.” William Appleby, dopo aver visto i papiri a Nauvoo, scrive nel suo diario il 5 maggio 1841: “C’è una differenza percettibile fra gli scritti. Giuseppe sembra essere stato lo scrivano migliore.” La traduzione del Libro di Giuseppe non avverrà mai.

Almeno un altro Libro dei morti è scomparso, ma due taccuini (indicati come Valuable Discovery, scritto da Cowdery e firmato da Smith e Notebook of Copied Egyptian Characters, scritto da Phelps) conservano diverse linee di geroglifici che permettono di attestarne l’esistenza e il nome del proprietario, un certo Amenhotep. Joseph Smith lo assegnerà invece a “Katumin, principessa figlia di On-i-tas d’Egitto, che iniziò a regnare nell’anno del mondo 2962”, come si legge nella sua traduzione di alcuni segni ieratici in entrambi i taccuini. Nel calendario ebraico l’anno mundi, ossia l’anno in cui sarebbe stato creato il mondo, è il 3761 a. C. Secondo Joseph Smith (se è proprio all’anno ebraico che si riferisce) il regno di questo Onitas sarebbe quindi cominciato nel 799 a. C., ma sappiamo invece che all’epoca l’Egitto era tanto indebolito politicamente da essersi diviso in due: a nord regnava la XXII dinastia e a sud la XXIII.

Per la traduzione del Libro di Abrahamo c’è invece molto più materiale con cui lavorare: Wilford Woodruff, appena diventato assieme a John Taylor direttore del Times and Seasons, scriverà nel suo diario il 19 febbraio 1842 che “Il Signore sta benedicendo Joseph con il potere di rivelare i misteri del regno di Dio, di tradurre attraverso gli Urim e Thummim scritti antichi e geroglifici vecchi quanto Abrahamo o Adamo, il che fa bruciare in noi i nostri cuori mentre ammiriamo le loro gloriose verità che si aprono a noi.” Urim e Thummim era ovviamente il nome con cui ormai venivano chiamate le pietre divinatorie e, sebbene Joseph avesse regalato a Oliver Cowdery la pietra marrone con cui aveva prodotto il Libro di Mormon, ne possedeva altre già all’epoca di Palmyra. Brigham Young poi ricorda nel 1855 che “Joseph ne aveva trovate due piccole sul lungofiume a Nauvoo, poco più grandi di una noce senza guscio -Joseph disse che c’è una pietra per ogni persona del mondo”. (The Complete Discourses of Brigham Young, vol. 2, p. 1004) Anche Parley P. Pratt dirà ai convertiti nel Regno Unito che “Il testo è ora in corso di traduzione per mezzo degli Urim e Thummim e dimostra di essere un testo scritto in parte dal padre dei fedeli Abrahamo e terminato da Giuseppe mentre era in Egitto. Dopo la sua morte si suppone che furono conservati nella famiglia dei faraoni e in seguito nascosti con il corpo imbalsamato della donna con cui furono trovati.” (Millennial Star, luglio 1842) Lucy Mack Smith inoltre “Disse che, mentre Joseph Smith leggeva il papiro, chiudeva gli occhi e teneva un cappello sopra il volto e che la rivelazione gli giungeva; e che dove il papiro era strappato poteva leggere le parti che erano distrutte bene quanto le parti che erano lì.” (Friends’ Weekly Intelligencer, 3 ottobre 1846) Anche Benjamin Winchester, che sarebbe diventato Settanta nel 1836, ricorda che: “In merito all’opera letteraria di Joseph -le sue “traduzioni”- ne ricordo bene alcune a Kirtland. Lì nel tempio avevano alcune mummie egiziane, sono sicuro che erano quattro. Joseph aveva preso un rotolo da una di esse con sopra scritti quelli che si presumevano essere caratteri egiziani. Era tenuto in mostra in una teca di vetro. Joseph impiegò la sua pietra divinatoria, o “Urim e Thummim”, su questo rotolo e ricavò una traduzione che pretendeva essere una visione di Abramo in cui era sostenuta la teoria moderna che il mondo è rotondo e che orbita, contro la teoria antica che precedeva l’epoca di Galileo. Pretendeva anche di espandere il racconto biblico della creazione del mondo e di mettere in chiaro il sistema solare.” (Salt Lake Daily Tribune, 22 settembre 1899)

Sono inoltre sopravvissuti svariati manoscritti originali del libro, tre versioni dell’alfabeto/abbecedario menzionato nel diario di Joseph Smith e una grammatica. Dato che dettava a diversi scribi contemporaneamente, gli alfabeti egiziani sono scritti rispettivamente da Joseph Smith stesso, Oliver Cowdery e W. W. Phelps (Egyptian Alphabet-A, abbreviato in EA-A), Oliver Cowdery (EA-B) e W. W. Phelps e Warren Parrish (EA-C); questi alfabeti sono un elenco di segni con la loro pronuncia e la traduzione in inglese. Ce n’è infine uno più bello ed espanso, compilato da Phelps e Parrish, il Grammar and A[l]phabet of the Egyptian Language, abbreviato in GAEL. Il GAEL somiglia a un vocabolario contemporaneo ed era organizzato in due colonne: la prima aveva il disegno del carattere egiziano, la seconda come lo si pronunciava e il suo significato, con diversi gradi di interpretazione. Secondo questi documenti l’egiziano aveva cinque livelli di significato, ognuno dei quali aveva un’interpretazione sempre più lunga e profonda rispetto al livello precedente. Per esempio la parola inventata “Ho-e-oop” al primo livello significa “un giovane uomo non sposato; un principe”, al secondo livello “un principe virtuoso”, al terzo “un principe del lignaggio dei faraoni”, al quarto “un principe di sangue reale, un discendente genuino di Cam, il figlio di Noè” e al quinto “un principe di sangue reale, un discendente genuino di Cam, il figlio di Noè, un erede di benedizioni regali dalla mano di Noè ma non secondo le benedizioni sacerdotali a causa della trasgressione di Cam, la cui benedizione scese su Sem dalla mano di Noè.” Il 15 novembre 1843 Joseph Smith aveva “proposto l’idea di preparare una grammatica della lingua egiziana”, quindi voleva sistemare i documenti prodotti a Kirtland, probabilmente per la pubblicazione. Come vedremo fra poco, il tutto è una storia molto ottocentesca.

Per quanto riguarda i manoscritti originali, sopravvivono quelli prodotti a Kirtland nel 1835, che coprono i primi due capitoli del Libro di Abrahamo: due dettati rispettivamente a Frederick G. Williams (manoscritto A) e Warren Parrish (manoscritto B) e una bella copia scritta da Phelps e Parrish che copre il testo da Abrahamo 1:1 ad Abrahamo 2:18 (manoscritto C). Willard Richards copierà il testo del manoscritto C a Nauvoo nel 1842 e poi sarà lo scrivano per la spiegazione del facsimile numero 2 e l’unico foglio del manoscritto sopravvissuto con la seconda parte della traduzione (Abrahamo 3:18-26). I manoscritti di Kirtland hanno la particolarità di mostrare al margine sinistro i caratteri egiziani dai quali era ottenuto il testo del libro, che provengono da JSP XI e fanno parte del Libro del respirare di Hor. Sia le grammatiche che i manoscritti furono tenuti sotto chiave negli archivi della Chiesa a Salt Lake City e non vennero mai pubblicati fino al 1966, quando Jerald e Sandra Tanner ricevettero da una talpa una copia su microfilm e li stamparono

Sul metodo usato da Smith per la traduzione, l’egittologo Lanny Bell dell’Oriental Institute dice che “In breve, l’approccio di Smith alla traduzione di antichi documenti egiziani lo annovera direttamente nella tradizione dell’interpretazione esoterica dei geroglifici che risale ad Athanasius Kircher (1602-1680) che sosteneva che i geroglifici “fossero puramente simbolici.” L’opinione di Kircher prevalse per la maggior parte della prima metà del XIX secolo, prima dell’accettazione della rivoluzionaria impresa di Champollion del 1822.” (Egypt and Beyond: Essays Presented to Leonard H. Lesko, pp. 30-31)

Obeliscus Pamphilius, p. 444
Per capire meglio questa affermazione bisogna tenere conto del fatto che Champollion era morto solo quarantunenne nel 1832: la sua grammatica egiziana verrà pubblicata postuma nel 1836 e il dizionario di geroglifici nel 1841, quindi quando il Libro di Abrahamo è pubblicato all’inizio del 1842 pochissimi statunitensi erano al corrente dell’exploit di Champollion e virtualmente nessuno di loro sarebbe stato in grado di produrre una traduzione dei geroglifici, specialmente senza conoscere il francese. Nel 1422 il francescano Cristoforo Buondelmonti aveva portato in Italia una copia degli Hieroglyphica di Orapollo, un’opera del V secolo che presentava la scrittura egizia come altamente simbolica, ermetica e capace di veicolare concetti molto astratti in pochi segni. Ciò aveva influenzato moltissimi umanisti fino a raggiungere il picco con il celebre gesuita Athanasius Kircher. Questo poliedrico tedesco aveva pubblicato nel 1650 l’Obeliscus Pamphilius, nel quale forniva la traduzione dell’omonimo obelisco romano che possiamo ammirare ancora oggi in Piazza Navona. Come si vede nell’immagine, le diciotto righe del testo evidenziato in rosso sono la tentata traduzione dei geroglifici evidenziati nell’immagine sulla destra. Anche Kircher pensava che i geroglifici esprimessero con pochi segni concetti misteriosi e complessi che avrebbero occupato molto spazio usando una scrittura alfabetica come la nostra, ma non è così. I geroglifici evidenziati in realtà sono un titolo faraonico e vogliono semplicemente dire “Horus, toro possente, amato da Maat” (Hor Kanakht Merimaat in egiziano), un testo ben più breve di quello di Kircher. 

Joseph Smith, come gran parte parte della gente della sua epoca, si rifaceva a questa tradizione fantasiosa e non agli studi di Champollion. Che queste idee fossero condivise anche da lui lo si può vedere direttamente nel Libro di Mormon, quando Moroni spiega che scrivere in egiziano riformato richiedeva molto meno spazio dell’ebraico: “Ed ora, ecco, abbiamo scritto questa storia secondo le nostre conoscenze, nei caratteri che tra noi sono chiamati egiziano riformato, che ci sono stati tramandati e che abbiamo alterato secondo il nostro modo di parlare. E se le nostre tavole fossero state abbastanza grandi, avremmo scritto in ebraico, ma l’ebraico è stato pure alterato da noi; e se avessimo potuto scrivere in ebraico, ecco, non avreste avuto nessuna imperfezione nella nostra storia.” (Mormon 9:32-33) David Whitmer inoltre dice in un’intervista pubblicata dal Chicago Times il 17 ottobre 1881 che durante la traduzione del Libro di Mormon a casa sua “Un carattere equivaleva frequentemente a due linee del manoscritto, mentre altre volte equivaleva solo a una o due parole.” Anche Oliver Cowdery farà capire che l’egiziano è una lingua estremamente densa nel Messenger and Advocate di dicembre 1835: “Non so dire quando la traduzione di questi preziosi documenti sarà completata, né posso darvi un’idea probabile di quanto saranno grandi i volumi che la costituiranno; ma, a giudicare dalla loro taglia e dall’esaustività del linguaggio, ci si può aspettare ragionevolmente che sia sufficiente per sviluppare molto circa i possenti atti degli antichi uomini di Dio e sui suoi rapporti con i figli degli uomini quando lo videro faccia a faccia.” Lo stesso processo è visibile nei manoscritti del Libro di Abrahamo, dove un carattere egiziano (in questo caso ieratico, non geroglifico) scritto sul margine sinistro equivale a diverse linee del testo in inglese.

I fogli del manoscritto C, con i caratteri ieratici nel margine sinistro evidenziati in rosso

I quattro caratteri evidenziati nella pagina 3 del manoscritto C contengono rispettivamente i versetti 11-12, 13-14, 15 e 16 del primo capitolo del Libro di Abrahamo. Come si vede nell’immagine, sono tratti direttamente dal Libro del respirare di Hor (JSP XI per la precisione). Si può notare che Joseph Smith aveva intuito correttamente che l’egiziano, come l’ebraico, si scriveva di norma da destra a sinistra.


I caratteri nei margini del manoscritto evidenziati in rosso mancano dal papiro e sono completamente di fantasia, a parte un paio sulla destra che sono reali ma erano su pezzi di papiro che ormai si sono staccati. Il testo del JSP XI evidenziato corrisponde nei manoscritti ad Abrahamo 1:1-2:18.

Come visto prima, il Libro di Abrahamo viene prodotto in due fasi: la prima fra luglio e novembre 1835 ed è quella più documentata e originale, che produce il grosso dei primi due capitoli del libro. Dal 26 gennaio al 29 marzo 1836 Joshua Seixas vivrà a Kirtland e insegnerà l’ebraico a Joseph Smith che, quando riprenderà il lavoro sui papiri a Nauvoo nei primi mesi del 1842, inserirà parole ebraiche (con la caratteristica traslitterazione sefardita dei manuali di Seixas) come kokaubeam, gnolaum, raukeeyang e shaumayheem, che troviamo nel capitolo 3 del Libro di Abrahamo sull’astronomia e nei facsimili n. 1 e 2. I capitoli 4 e 5 sono invece chiaramente copiati dai primi due capitoli di Genesi e per questo hanno richiesto solo qualche settimana per essere scritti e pubblicati; la storia della creazione reinterpretata da Joseph Smith, particolarmente quando si parla di diversi personaggi coinvolti nell’organizzazione della Terra, è contenuta anche nella cerimonia dell’investitura ed è familiare a chiunque ne abbia preso parte. Questo non è un caso, in quanto il 15 marzo 1842 Joseph Smith era diventato massone e il 4 maggio aveva introdotto l’investitura copiando molti elementi delle iniziazioni massoniche come il linguaggio delle spiegazioni e in particolare i segni e i simboli usati dalla massoneria per passare da un grado all’altro. La pubblicazione del Libro di Abrahamo era avvenuta in tre parti nei numeri del Times and Seasons del 1° marzo (Abrahamo 1:1-2:18), 15 marzo (Abrahamo 2:19-5:21) e 16 maggio (facsimile n. 3) dello stesso anno, periodo in cui la narrazione dell’investitura stava assumendo le forme definitive nella mente di Smith.

Théodule Devéria nel 1864

I tre facsimili contenuti nel Libro di Abrahamo e la loro interpretazione sono stati gli elementi più scrutinati e criticati dagli egittologi fino al 1967, dato che fino a quell’anno non esistevano ancora foto o riproduzioni del resto dei papiri. Già nel 1860 il naturalista francese Jules Rémy aveva pubblicato la traduzione dei facsimili fatta dall’egittologo Théodule Devéria del Louvre. (Voyage au pays des mormons, vol. 2, pp. 462-467) Devéria dice che “per me è evidente che diverse delle figure presenti su questi vari frammenti di manoscritti egiziani sono state alterate intenzionalmente” spiegando per esempio che la figura nera nei facsimili 1 e 3 dovrebbe avere la testa da sciacallo perché è Anubi e che il volatile nel facsimile 1 dovrebbe avere una testa umana. Vedremo più avanti che i facsimili erano effettivamente stati alterati, in quanto alcune porzioni erano mancanti ed erano state restaurate in modo improprio al contesto dei papiri originali. Rémy conclude dicendo sarcasticamente: “Dopo le rivelazioni che abbiamo fatto, se i mormoni insistono a credere che il loro profeta non sapesse mentire, converranno almeno che la potenza divinatoria dell’Urim-Thummim non sia infallibile.”

Circa mezzo secolo dopo Francis Spencer Spalding, vescovo episcopale dello Utah, scrisse a diversi egittologi per avere le loro opinioni e traduzioni dei facsimili e pubblicò le loro risposte nel 1912 in Joseph Smith, Jr., as a Translator. Riporto le conclusioni di due dei più importanti archeologi di sempre, Flinders Petrie e James Breasted, i primi cattedratici di egittologia rispettivamente nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Petrie sostiene che “Per chiunque abbia conoscenza del vasto genere dei documenti funerari ai quali questi appartengono, i tentativi di indovinare un loro significato, nelle spiegazioni professate, sono troppo assurdi per prestar loro attenzione. Può essere detto tranquillamente che non c’è una singola parola che sia vera in quelle spiegazioni.” Breasted dice che “Per riassumere, dunque, questi tre facsimili di documenti egiziani nella Perla di Gran Prezzo illustrano i più comuni oggetti nella religione mortuaria dell’Egitto. La loro interpretazione da parte di Joseph Smith come parte di una rivelazione unica attraverso Abrahamo dimostra perciò molto chiaramente che non conosceva per nulla il significato di questi documenti ed era assolutamente all’oscuro dei più semplici fatti della scrittura e della civiltà egiziana.” (pp. 24-27)

I facsimili n. 1 e 3 vengono rispettivamente dall’inizio e dalla fine del Libro del respirare di Hor, un rotolo che in origine era lungo circa 150-155 cm e risalente all’era tolemaica, probabilmente il II secolo a.C. Gli egiziani avevano bisogno del Libro dei morti (di cui il Libro del respirare è una versione tarda e condensata) per avere istruzioni e formule da usare come manuale nel viaggio attraverso le insidie e le prove del Duat, l’aldilà della loro religione. Includevano nelle bende della mummia anche diversi amuleti per proteggersi dai pericoli e favorire la resurrezione. Dal rotolo veniamo a sapere che il proprietario era un sacerdote tebano di nome Hor (il suo titolo nel JSP I è “profeta di Amon-Ra, re degli dèi, profeta di Min che massacra i suoi nemici, profeta di Khonsu, [colui che esercita] l’autorità su Tebe”) e che era figlio di due membri della classe sacerdotale, Osorwer e Taikhibit, resi a volte con le loro versioni greche Osoroeris e Chibois. Nonostante l’importanza del personaggio, la qualità del libro è abbastanza infima e il Louvre conserva alcuni papiri che facevano parte di un Libro dei morti di questo stesso Hor (P. Louvre 3207, 3208 e 3209). I tre facsimili vennero incisi da Reuben Hedlock sotto la supervisione del profeta stesso (v. diario di Joseph Smith, 1 e 4 marzo 1842).

Il primo facsimile rappresenta una scena tratta dal mito di Osiride, secondo il quale un tempo Osiride regnava sull’Egitto con la moglie-sorella Iside imponendo ordine e giustizia nel paese. Un giorno però il fratello Seth uccise Osiride e lo fece a pezzi, usurpandone il potere e piombando l’Egitto nel caos e nella violenza. Iside e Nefti (Nefti è a sua volta moglie-sorella di Seth) si misero a cercare per tutto il paese i frammenti del corpo di Osiride, ricomponendolo infine su un letto funebre e creando così la prima mummia; Iside si trasforma in falco per unirsi al corpo del marito, concependo Horus e resuscitando con l’atto il marito. Osiride diventerà il sovrano dell’oltretomba mentre Horus sconfiggerà Seth in una serie di duelli, riportando l’ordine nel suo nuovo regno. La vignetta del facsimile n. 1 ritrae l’istante in cui Osiride resuscita. Nella parte mancante del papiro si trova di solito Iside in forma di falco, mentre la testa della figura a sinistra è Anubi che si occupa della mummia di Osiride e non un sacerdote che sta per sacrificare Abramo (anche perché gli egiziani non praticavano il sacrificio umano). Un visitatore anonimo racconta nell’Alexandria Gazette dell’11 luglio 1840 che Joseph Smith gli aveva spiegato: “Questi antichi documenti, disse, fanno molta luce sul tema del cristianesimo. Sono stati srotolati e preservati con gran lavoro e cura. Il mio tempo al momento è stato troppo assorbito per tradurre il tutto, ma ti mostrerò come interpreto certe porzioni. Quella, disse indicando un carattere in particolare, quella è la firma del patriarca Abrahamo. L’autografo di Abramo si può identificare a pagina 3 dell’EA-A ma come si può vedere è in realtà il nome del padre di Hor, Osorwer; il nome di Hor è leggibile poco sopra. Smith disse anche a Josiah Quincy IV che nei papiri “Questa è la grafia di Abrahamo, il padre dei fedeli” ma anche che c’erano altri importanti autografi, per esempio: “Questo è l’autografo di Mosè e queste linee sono state scritte da suo fratello Aaronne. Qui abbiamo il resoconto più antico della creazione, dal quale Mosè compose il primo libro della Genesi.” (Figures of the Past from the Leaves of Old Journals, p. 386) La traduzione del resto del Libro del respirare è negli articoli in bibliografia di Klaus Baer e di Ritner, per chi volesse leggerla.

 


Una scena simile si trova nel tempio di Hathor a Dendera, qui riprodotta dal volume IV di Dendérah (p. 90) dell’egittologo Auguste Mariette perché più leggibile dei rilievi originali, ormai abbastanza rovinati.


In Abrahamo 1:12-14 si legge che questa vignetta è inclusa per mostrare la scena del tentato sacrificio di Abramo con l’altare e gli dèi protagonisti della scena: “E avvenne che i sacerdoti fecero violenza su di me, per poter uccidere anche me su questo altare, come avevano fatto con quelle vergini; e affinché possiate avere una conoscenza di questo altare, vi rimando alla figura che è all’inizio di questo scritto. Era fatto a forma di letto, quale si aveva fra i Caldei, e stava dinanzi agli dei di Elkena, Libna, Mahmackra, Korash, e anche a un dio come quello di Faraone, re d’Egitto. Affinché possiate avere una comprensione di questi dei, ve ne ho dato la forma nei disegni all’inizio, tipo di disegni che è chiamato dai Caldei Rahleenos, che significa geroglifici.” Nessuna di queste quattro divinità egiziane esiste (anzi, nell’Antico Testamento Elkana è il padre del profeta Samuele, Libna è una città conquistata da Giosuè e Koresh è il nome di Ciro il Grande in ebraico) e i caldei appariranno secoli dopo una presunta esistenza di Abramo. Robert Ritner in un’intervista fatta con Mormon Stories e Radio Free Mormon il 30 luglio 2020 spiega il significato del facsimile n. 1 ai minuti 120-150, che si può riassumere nella seguente tabella:

Secondo Joseph Smith

Fig.

Secondo Robert K. Ritner

L’angelo del Signore.

1

Lo spirito ba di Hor o la dea Nefti

Abrahamo legato su un altare.

2

Osiride nell’atto di resuscitare

Il sacerdote idolatra di Elkena che tenta di offrire Abrahamo come sacrificio.

3

Il dio Anubi

Altare per i sacrifici da parte dei sacerdoti idolatri, che sta davanti agli dei di Elkena, di Libna, di Mahmackra, di Korash e di Faraone.

4

Letto funebre con teste leonine

L’idolo di Elkena.

5

Qebehsenuef

L’idolo di Libna.

6

Duamutef

L’idolo di Mahmackra.

7

Hapi

L’idolo di Korash.

8

Imseti

L’idolo di Faraone.

9

Il dio Sobek

Abrahamo in Egitto.

10

Altare con offerte di fiori e vasetti di vino

Intende rappresentare le colonne del cielo, come inteso dagli Egiziani.

11

Un muro in mattoni con nicchie (serekh)

Raukeeyang, che significa distesa, ossia il firmamento sopra la nostra testa; ma in questo caso, in relazione a questo argomento, gli Egiziani intendevano che significasse Shaumau, essere elevato, ossia i cieli, corrispondente alla parola ebraica Shaumauhyeem.

12

Il fiume Nilo


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 






Quando un corpo veniva mummificato, alcuni organi erano rimossi e conservati nei vasi canopi in vista del loro uso nell’aldilà: i quattro figli di Horus che proteggevano le interiora e che davano le fattezze ai vasi stessi erano Imseti (dalla testa umana) per il fegato, Hapi (testa di babbuino) per i polmoni, Duamutef (testa di sciacallo) per lo stomaco e Qebehsenuef (testa di falco) per l’intestino. Il cuore era lasciato nel corpo per essere pesato nell’aldilà. Quando i defunti giungevano nella sala delle due verità dovevano recitare la confessione negativa davanti ai 42 giudici inferi, elencando gli atti considerati ingiusti che non avevano commesso mentre erano in vita. In seguito passavano il proprio cuore ad Anubi, che lo metteva su un piatto della sua bilancia mentre sull’altro era posta la piuma di Maat, la dea della giustizia. Thot, il dio scriba, registrava l’esito della pesa: se il cuore era puro, il defunto riceveva il titolo di maa kheru (il giustificato) e poteva procedere oltre la porta custodita da Osiride e bearsi per l’eternità nei campi Iaru alla fine del percorso, oltre a ottenenere l’appellativo di “Osiride” in quanto resuscitato come lui (per questo Hor è chiamato “Osiride Hor il giustificato” nel papiro); se il cuore era invece appesantito dai peccati, faceva abbassare il piatto e veniva divorato da Ammit, il demone con testa di coccodrillo, busto di leone e retro di ippopotamo (gli animali più mortali d’Egitto), che annientava così l’anima del defunto. La seguente vignetta è di qualità molto superiore a quella del libro di Hor e viene dal Libro del respirare di Kerasher conservato al British Museum, che ho ritagliato dall’immagine a questo link.

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La vignetta del facsimile n. 3 raffigura il momento dopo la pesa in cui Hor viene portato da Maat e Anubi alla presenza di Osiride e Iside. Joseph Smith, vedendo la figura nera di Anubi, pensò quello che molti statunitensi poco pratici di mitologia egiziana avrebbero immaginato all’epoca: era nero e quindi uno schiavo. Nel facsimile il muso di Anubi è stato cancellato, ma si può vedere che l’orecchio a punta in cima alla testa del dio sciacallo è rimasto. 

 

Il testo in basso dice “O dèi della necropoli, dèi delle caverne, dèi del sud, nord, ovest ed est, garantite salvezza a Osiride Hor, il giustificato, nato da Taikhibit.” Ritner spiega nel suo articolo di Dialogue (pp. 114-115) la traduzione dei geroglifici sopra le mani delle figure:

Secondo Joseph Smith

Fig.

Secondo Robert K. Ritner

Abrahamo che siede sul trono di Faraone, per gentilezza del re, ad emblema della grande Presidenza in Cielo, con una corona sulla testa che rappresenta il sacerdozio; con in mano lo scettro della giustizia e del giudizio.

1

“Recitazione di Osiride, primo degli occidentali, signore di Abido (?), il grande dio per sempre e in eterno (?)”

Re Faraone, il cui nome è dato nei caratteri al di sopra della sua testa.

2

“La grande Iside, madre del dio”

Significa Abrahamo in Egitto, come dato anche nella fig. 10 del Facsimile n. 1.

3

Altare

Principe di Faraone, re d’Egitto, come è scritto sopra la mano.

4

“Maat, signora degli dèi”

Shulem, uno dei camerieri principali del re, come rappresentato dai caratteri sopra la sua mano.

5

“Osiride Hor, giustificato per sempre”

Olimla, uno schiavo che appartiene al principe.

6

“Recitazione di Anubi che protegge (?), primo della camera dell’imbalsamazione”

Il facsimile n. 2 è un ipocefalo appartenuto a un certo Sheshonq (Sesongosis in greco), che era un disco spesso costituito da un cerchio di lino coperto da un sottile strato di stucco. Era posto sotto la testa della mummia e rappresentava il disco solare, proteggendo il defunto e favorendone la resurrezione generando spiritualmente una fiamma vivificante. L’originale è perso e, sebbene Joseph Smith lo associ al Libro del respirare di Hor per creare il Libro di Abrahamo, i due oggetti non hanno nessun legame fra di loro e appartengono a due individui distinti. L’ipocefalo di Sheshonq era anche un po’ più antico, risalendo a un periodo fra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C.

Copia dell’ipocefalo con i danni e quello pubblicato nel Times and Seasons del 15 marzo 1842
 

L’ipocefalo era danneggiato e, soprattutto nella parte destra, mancavano delle porzioni; quando il facsimile è pubblicato, queste lacune vengono riempite con pezzi provenienti dai papiri di Hor e Ta-Sherit-Min, come illustrato in basso. Questo crea una grossa incongruenza anche perché l’ipocefalo è scritto in geroglifici, mentre perfino un occhio poco esperto può vedere che la parte aggiunta da Joseph Smith ha un aspetto più corsivo perché è scrittura ieratica. Ritner traduce il testo indicato coi numeri 8-11 “Oh nobile dio dall’inizio dei tempi, signore del cielo, della terra, degli inferi, delle acque [e delle montagne] fa’ che lo spirito ba di Osiride Sheshonq viva” (The Joseph Smith Egyptian Papyri, p. 222), che indica appunto il proprietario; il testo evidenziato in blu invece è il nome della madre di Hor, Taikhibit, che viene dal JSP XI. Ricordo che una volta, mentre speculavamo sul facsimile nella cappella del tempio, un amico mi aveva mostrato in Perla di Gran Prezzo che la figura 7, che a dire di Joseph Smith era “Dio seduto sul suo trono, che rivela attraverso i cieli le grandi Parole-chiave del Sacerdozio”, stava facendo il secondo segno del sacerdozio di Aaronne. In realtà il braccio alzato della divinità tiene un flagello agricolo (il nekhakha) e l’altro non è un braccio ma il fallo, però all’epoca non lo sapevo e ci siamo così risparmiati una discussione che avrebbe potuto essere imbarazzante.

 

Gli ipocefali hanno immagini piuttosto standardizzate e simili, quindi mostro un paio di esempi per dare un’idea di quale aspetto avrebbero dovuto avere le figure 1 e 2. Il primo è l’ipocefalo di Sarapione conservato al Rijksmuseum van Oudheden di Leida (foto di Sailko, Wikimedia Commons), mentre il secondo è l’ipocefalo di Horo (omonimo ma distinto dall’Hor che possedeva il Libro del respirare), al British Museum.

Ipocefalo di Sarapione

Ipocefalo di Horo. Immagine modificata da qui
 
Ritner fornisce la traduzione delle altre figure alle pagine 219-224 dello stesso libro: 
 

Secondo Joseph Smith

Fig.

Secondo Robert K. Ritner

Kolob, che significa la prima creazione, la più vicina al celeste, ossia alla residenza di Dio. La prima nel governo, l’ultima relativamente alla misura del tempo. La misura è secondo il tempo celeste, il quale tempo celeste significa un giorno per un cubito. Un giorno a Kolob è uguale a mille anni secondo la misura di questa terra, che è chiamata dagli egiziani Jah-oh-eh.

1

Aton-Ra con due scimmie ai lati che lo adorano e sormontate da dischi lunari; la doppia testa è copiata dalla figura 2

Sta vicina a Kolob, chiamata dagli Egiziani Oliblish; che è la successiva grande creazione governante vicina al celeste, ossia al luogo dove risiede Dio; e detiene anche la chiave del potere relativo agli altri pianeti; come rivelato da Dio ad Abrahamo, quando offrì un sacrificio su un altare che aveva costruito per il Signore.

2

Dio con due teste

È fatta per rappresentare Dio, che siede sul suo trono, rivestito di potere e autorità, con una corona di luce eterna sul capo; rappresenta anche le grandi Parole-chiave del Santo Sacerdozio, come rivelate ad Adamo nel Giardino di Eden, come anche a Seth, a Noè, a Melchisedec, ad Abrahamo, e a tutti coloro a cui fu rivelato il sacerdozio.

3

Dovrebbero esserci in realtà due barche: una con sopra Iside e Nefti, l’altra con Ra e Khepri

Corrisponde alla parola ebraica Raukeeyang, che significa distesa, ossia il firmamento dei cieli; è anche un simbolo numerico che in egiziano significa mille, corrispondente alla misura del tempo in Oliblish, che è uguale a Kolob nelle sue rivoluzioni e nella sua misura del tempo.

4

Il dio Sokar sulla sua barca

È chiamata in egiziano Enish-go-on-dosh; anche questo è uno dei pianeti governanti, e gli Egiziani dicono che è il sole, e che prende in prestito la sua luce da Kolob per mezzo di Kae-e-vanrash, che è la grande Chiave, ossia, in altre parole, il potere governante, che governa quindici altri pianeti fissi, ossia stelle, come pure Floeese, ossia la Luna, la Terra e il Sole nelle loro rivoluzioni annuali. Questo pianeta riceve il suo potere per mezzo di Kli-flos-is-es, ossia Hah-ko-kau-beam, le stelle rappresentate dai numeri 22 e 23, che ricevono luce dalle rivoluzioni di Kolob.

5

La dea Hator in forma di vacca celeste e una dea che regge un loto egizio

Rappresenta questa terra nei suoi quattro canti.

6

I quattro figli di Horus

Rappresenta Dio seduto sul suo trono, che rivela attraverso i cieli le grandi Parole-chiave del Sacerdozio; come pure il segno dello Spirito Santo ad Abrahamo, in forma di una colomba.

7

Il dio Min seduto sul trono e il dio Nehebkau che gli offre l’occhio di Horus, entrambi itifallici

 

Joseph Smith nel numero del 1° novembre 1843 del Times and Seasons spiega che “l’arte (ora perduta) di imbalsamare i corpi umani e custodirli nelle catacombe d’Egitto, per mezzo della quale uomini, donne e bambini, dopo un lasso di quasi tremila e cinquecento anni, giungono come mummie ai viventi e, sebbene morti, il papiro che ha vissuto indenne nei loro grembi parla per loro, in un linguaggio come suono di terremoto: Ecce veritas! Ecce cadaveros! Ecco la verità! Ecco le mummie!” Come visto in precedenza, né i papiri né le mummie avevano quasi 3.500 anni come sostiene qui il profeta e sono di molto posteriori a un’ipotetica esistenza di Abramo. Smith sembra inoltre aver ripensato la cronologia delle mummie, dato che nel 1835 aveva detto che Onitas e Katumin avevano vissuto nell’VIII secolo a. C.
 
Il patriarca inoltre non avrebbe mai potuto scrivere di proprio pugno un Libro del respirare perché questo tipo di documento è nato nel IV secolo a.C. Non mancano altri grossi problemi temporali: nel primo versetto Abramo dice che abitava “nella terra dei Caldei” seguendo Genesi 15:7 che dice che Abramo viveva a Ur dei caldei, ma i caldei non esistevano come popolo prima del IX secolo a.C. Dato che l’Antico Testamento è stato scritto ben dopo quest’epoca è normale che parli di Caldei, ma un testo che li precederebbe di quasi mille anni non potrebbe menzionarli. La collina di Potifar sulla quale il sacerdote di Faraone prova a sacrificarlo (Abrahamo 1:10) riprende il nome del padrone egiziano di Giuseppe d’Egitto, ma non era diffuso in Egitto prima del terzo periodo intermedio (XI-VII secolo a.C.) e non ha senso che un sacerdote faraonico compisse dei sacrifici in Mesopotamia meridionale, che era ben al difuori dalla sfera di influenza egiziana, su una collina con un nome egiziano. Il re Faraone viene definito figlio di Egyptus (Abrahamo 1:25), ma entrambi i nomi sono problematici perché faraone non è un nome proprio ma un titolo (non significa “re di sangue reale” come dice Abrahamo 1:20, ma indicava il palazzo reale, la “grande casa”, simile all’uso italiano di dire Palazzo Chigi per designare il presidente del consiglio) e comincia a essere usato così durante la XVIII dinastia (XVI-XIII secolo a.C.); Abrahamo 1:23 dice che Egyptus “in Caldeo significa Egitto, che significa ciò che è proibito”, ma il nome non ha nulla a che fare con il caldeo e non è certo quello di una persona: gli egiziani chiamavano la loro terra Kemet, mentre la parola Egyptus viene da Aigyptos, nome che i greci usavano per tutto il paese ma che in egiziano indicava il grande tempio di Ptah (Hut-ka-Ptah, letteralmente "la casa del ka di Ptah") di Menfi, una loro antica capitale.

Lo storico mormone Klaus J. Hansen disse che Joseph Smith poteva essere stato influenzato da Philosophy of a Future State di Thomas Dick: “Alcuni paralleli molto impressionanti con la teologia di Smith suggeriscono che le somiglianze fra i due possano essere più che coincidenze. Il lungo libro di Dick, un ambizioso trattato su astronomia e metafisica, proponeva l’idea che la materia è eterna e indistruttibile e rigettava la nozione della creazione ex nihilo. La maggior parte del libro si occupava dell’infinità dell’universo, composto da innumerevoli stelle disperse su distanze incommensurabili. Dick speculava che molte di queste stelle fossero popolate da “vari ordini di intelligenze” e che queste intelligenze erano “esseri progressivi” in vari stadi evolutivi verso la perfezione. Nel Libro di Abrahamo, parte del quale consiste in un trattato su astronomia e cosmologia, esseri eterni di vario ordine e stadi di sviluppo popolano in modo simile numerose stelle. Anche loro vengono chiamati “intelligenze.” Dick speculava che “i sistemi dell’universo ruotano attorno a un centro comune… il trono di Dio.” Nel Libro di Abrahamo una stella chiamata Kolob “era la più vicina al trono di Dio.” Altre stelle, in ordine decrescente, erano collocate a distanze maggiori da questo centro.” (Mormonism and the American Experience, p. 110) Joseph Smith possedeva questo libro e il 31 gennaio 1844 lo aveva donato assieme a una cinquantina di altri volumi al Nauvoo Library and Literary Institute, come si può vedere nelle minute dell’istituto stesso. 
 
Un’altra opera che ha ispirato il Libro di Abrahamo sono state le Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe in cui si spiega che, quando era in Egitto, Abramo “si attirava l’ammirazione di uomo sapientissimo, dotato non solo di ingegno acuto, ma anche di forza di persuasione atta a convincere gli ascoltatori; egli li introdusse all’aritmetica e trasmise loro le leggi dell’astronomia. Prima dell’arrivo di Abramo, gli egiziani erano ignoranti di queste scienze: è infatti dai caldei che esse passarono in Egitto, e di qui giunsero ai greci.” (I:167-168) Come visto nella sua lettera sul Libro dei morti per Ta-Sherit-Min, in cui dice di riconoscere il pilastro di Enoch, Oliver Cowdery le aveva lette.

Oltre al Libro di Abrahamo, Joseph Smith si cimenterà in altre traduzioni dall’egiziano. Nei documenti egiziani di Kirtland si trovano anche due pagine, in origine unite all’EA-C, che conterrebbero i simboli e la pronuncia dei numeri egiziani dall’1 al 79. Come si vede, i numeri di Smith somigliano notevolmente a normalissime cifre arabe e non corrispondono affatto a quelli reali riportati sulla destra:
 
I numeri da 1 a 10

Nel 1843 vediamo che ormai Joseph Smith aveva preso gusto a includere parole e frasi, a suo dire egiziane, nei propri interventi: nel Times and Seasons del 15 maggio spiega che il nome Mormon viene dall’inglese more e dall’egiziano “mon”, che significherebbe “buono” (la vera parola egiziana è nefer). Nel Times and Seasons del 13 novembre dice: “Se fossi un egiziano esclamerei Jah-oh-eh, Enish-go-on-dosh, Flo-ees-Flos-is-is [Oh terra! La forza di attrazione e la luna che passa fra lei e il sole]” (cfr. GAEL, p. 24). In un inserto di dicembre del Times and Seasons intitolato General Joseph Smith’s Appeal to the Green Mountain Boys dice che se fosse un egiziano esclamerebbe: “Su-eh-e-ni: (che razza di persone sono queste?)” (cfr. GAEL, p. 5) 
 
Il Libro di Abrahamo, le grammatiche e i manoscritti di Kirtland gettano molta luce sulla teologia di Joseph Smith, i suoi esperimenti linguistici e come la cultura della sua epoca abbia influenzato il mormonismo. Prima che gli egittologi prendessero la parola si poteva solo essere scettici riguardo la traduzione fornita da Smith, ma ormai è chiaro che per quanto interessante possa essere il contenuto del Libro di Abrahamo, esso è puramente un frutto dell’immaginazione e non un resoconto abramitico trasmesso dall’antichità. Trovo comunque magnifico che dal 2018 i Joseph Smith Papers permettano di consultare in tutta comodità questi notevoli scritti.

Fonti:

 

Grant S. Heward e Jerald Tanner, The Source of the Book of Abraham Identified

Edward H. Ashment, The Facsimiles of the Book of Abraham: A Reappraisal

Edward H. Ashment, Joseph Smith’s Identification of "Abraham" in Papyrus JS 1, the "Breathing Permit of Hor"

Christopher C. Smith, The Dependence of Abraham 1:1—3 on the Egyptian Alphabet and Grammar

Christopher C. Smith, "That which Is Lost": Assessing the State of Preservation of the Joseph Smith Papyri

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